La città dove il pensiero si perde

Sono arrivato ad Istanbul in una sera di aprile e sono ripartito cinque giorni dopo con un centinaio di foto, tre chili in più e la testa piena di pensieri. Ho trovato tutto quello che mi aspettavo, ma sono rimasto lo stesso spiazzato dalla moltitudine di sfaccettature che la città offre e che rendono impossibile definirla in poche parole, una foto, qualche minuto di filmato… Ho impiegato un’eternità a scegliere una foto per questo articolo, alla fine mi sono arreso, ho scartato le più belle ed ho messo quella più significativa.

Sotto un sole cocente una moltitudine di persone partecipa ai mercati, assiste i turisti, si sposta con i battelli come se fossero autobus ed il viaggiatore si perde, si confonde. I turchi sogliono dire che Istanbul abbia più abitanti dell’intera Grecia, ma non è un’immagine che rende degnamente idea e vantarsi della quantità non è mai cosa saggia. Istanbul ha molti quartieri, ogni quartiere è una città, con la sua estetica, la sua anima, il suo umore e le sue facce.

I secoli si sommano e raccontano storie. I coloni di Megara che fondarono prima Calcedonia (Χαλκηδών) e poi Bisanzio (Βυζάντιον), che diventeranno i quartieri di Kadiköy e Fatih. I celti Galati che attraversando i Balcani si insediarono nel centro dell’Anatolia e stabilirono una delegazione a nord del corno d’oro, che scorre attraverso la città, dove ora sorge la Torre Galata nel quartiere di Karaköy. Passando poi per i persiani, per arrivare ai turchi odierni. Passeggiando per strada, secoli si sentono tutti.

Il bazar di Istanbul non é normale. Dai bazar normalmente entri ed esci. Quello di Istanbul invece può mandare nel panico anche le menti più lucide. Si entra tranquilli, passando i controlli di polizia, ci si avventura in una giostra di colori, suoni odori e poi ci si perde, o peggio. Il percorso comincia di solito con delle gioiellerie e negozi di abbigliamento, prosegue con articoli più esotici come stoffe e dolciumi, spezie e tappeti. Non mancano vasellame, vetreria, piastrelle ornamentali e negozi di articoli da caffè. Ma quello che più balza agli occhi sono moderni e banali negozi di articoli per la casa con secchi e grucce in plasticaccia, radioline e aspirapolveri a costo infimo. Poi comincia il deliro.

Vedendo le merci cominciare a ripetersi, sorge spontaneo il pensiero di aver visto tutto e si comincia a cercare con lo sguardo l’uscita più vicina. Si comincia dunque a camminare per l’antica struttura dapprima con serena noncuranza, poi con ansia e velocità di passo crescenti. Dopo qualche minuto, persino le facce sembrano sempre le stesse e si inizia a ricorrere a strategie più sofisticate: “Tengo la destra, vado sempre dritto, chiedo a qualcuno… no, mi prendono per scemo…”

La prima volta che lo visitai cominciai a dubitare delle mie collaudate doti di orientamento “Quanti giorni sono passati?”. Riconobbi la luce del sole da dietro un angolo, la vista del cielo azzurro mi fece credere di nuovo in me stesso. Uscimmo in una coorte, dove erano organizzate piccole librerie, alcune turistiche, alcune specializzate in testi religiosi e versioni bilingue turco/arabe del corano. Quando uscimmo dalla coorte, mi sentii male. Per le strade il mercato continuava con una calca non inferiore alla parte coperta. L’uscita era una dannata illusione.

Ci volle mezz’ora di inciampi sui sampietrini e spallate per uscire sul serio dal mercato e raggiungere il mare, al fine poi di proseguire lungo la costa e tornare alla stazione dei traghetti di Eminönü. Piedi disfatti e testa rintronata, ero provato. Avevo il pretesto perfetto per proporre vino e pesce, nessuno contestò.

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